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Gli argentini sono italiani? Come brasiliani e americani!

Diaspora italiana

Ma perché ci sono così tanti discendenti di italiani in America? Certo, se vogliamo le Americhe sono state raggiunte per la prima dagli Europei grazie ad un nostro connazionale – il genovese Cristoforo Colombo – e il nome stesso di America deriva da un esploratore e navigatore fiorentino: Amerigo Vespucci.

Fu lui il primo che si rese conto che le terre raggiunte da Colombo non erano l’estrema propaggine dell’Asia, come si credeva inizialmente, ma una parte di un continente ignoto che lui chiamò Nuovo Mondo e che in suo onore fu poi chiamato America.

Quindi da quel momento gli italiani e la storia americana si intrecciano? Assolutamente no.

Fino all’Ottocento, infatti, in America emigrano principalmente spagnoli e portoghesi: marinai, soldati, mercanti, artigiani, conquistadores e proprietari terrieri che dominavano grandi masse di schiavi indigeni o africani.

Fu solo dopo la Guerra di indipendenza nell’America del Nord e le rivoluzioni in Sud America all’inizio dell’Ottocento che, assieme all’abolizione della schiavitù, i nuovi stati americani (soprattutto quelli dell’America del Sud) presero ad incoraggiare la migrazione stabile di contadini europei nei loro territori.

Gli italiani ebbero un ruolo significativo nelle lotte per l’indipendenza, ma il loro numero era marginale nel processo migratorio. Questo stava per cambiare.

La corsa alle Americhe

Nella seconda metà dell’Ottocento emigrarono nel continente americano circa 11 milioni di persone, soprattutto in America del Sud, e gli italiani erano alla testa di questo movimento migratorio. Cosa spingeva improvvisamente tanti nostri connazionali a lasciare il Paese?

In quel periodo l’economia mondiale era in piena trasformazione: nuove tecnologie, nuove scoperte, nuovi mercati. L’agricoltura italiana andò in crisi a causa dell’importazione di cereali dalle pianure ucraine e americane, che grazie ai nuovi mezzi di trasporto potevano essere importati a minor costo.

Oltre a questo, gli altri paesi mediterranei – come Spagna, Grecia, Tunisia, Francia e altri – erano in competizione con il commercio italiano per l’olio e prodotti similari.

Era necessario modernizzare e questo significava più macchine e meno lavoratori. Ma l’Italia era un paese contadino, e tra il 1870 e il 1930 furono in tantissimi (quasi 18 milioni) a cercare lavoro altrove.

Prima in Paesi che si stavano industrializzando rapidamente come Francia e Inghilterra, in seguito oltreoceano verso il Nord America e soprattutto nelle zone agricole dell’America del Sud, in particolare in Argentina e in Brasile.

Secondo un censimento del 1871, erano 450.000 gli italiani residenti in paesi stranieri. Esattamente un decennio dopo (censimento del 1881) il numero era raddoppiato: 1.032.000 unità. Di questi, il 56% era nelle Americhe.

L’Argentina e il Brasile erano le destinazioni preferite, mentre meno di un terzo degli emigranti andavano negli Stati Uniti. E le ragioni sono ovvie.

In Sud America l’integrazione degli italiani era facilitata da molti fattori, tra cui istituzioni, cultura e struttura della società molto simili a quelle italiane. Anche la possibilità di trovare molti connazionali influiva nella scelta del Paese in cui emigrare: in Argentina la comunità italiana era cinque volte più numerosa rispetto a quella negli Stati Uniti.

Inoltre, soprattutto in Argentina, la cultura vicina a quella italiana, la somiglianza linguistica e la stessa religione cattolica favorirono non solo una più facile integrazione, ma anche una forte leadership nella vita associativa ed economica nei Paesi d’arrivo.

Dal momento che vi erano prospettive migliori, minori problemi con la lingua e un adattamento culturale più facile, i biglietti per il Sud America costavano molto di più rispetto a quelli per gli Stati Uniti. E questo aspetto creò due tipi diversi di emigrazione.

Coloro che si potevano permettere il biglietto per Argentina e Brasile si dirigevano là, mentre i più poveri andavano negli Stati Uniti. I biglietti erano meno cari, ma le occupazioni nelle industrie o in agricoltura offrivano la possibilità di guadagni immediati e la creazione di infrastrutture rendeva possibile il lavoro stagionale ed il ritorno a casa.

Per questo motivo, i migranti provenienti dalle regioni del Nord andavano principalmente in Sud America, la maggioranza degli emigrati del Sud in America del Nord.

Nel caso di emigranti con qualifiche professionali, invece, questi preferivano mete europee. In particolare, i settentrionali seguivano le tradizionali vie del lavoro verso la Francia e la Germania, Paesi in via di rapida industrializzazione dove i lavoratori specializzati potevano facilmente inserirsi. Ma all’inizio del XX secolo gli Stati Uniti divennero la meta migratoria più importante anche per gli italiani.

Prima della Prima guerra mondiale erano già emigrati quattordici milioni di persone: il 55% dell’intero flusso di un secolo. La grande maggioranza era costituita da maschi (75%) in età lavorativa (80%).

A questa data, i Paesi che avevano ricevuto più italiani sono gli Stati Uniti (5,7 milioni), la Francia (4,4 milioni), la Svizzera (4 milioni), l’Argentina (quasi 3 milioni), la Germania (2,5) e il Brasile (1,5)

Le comunità italiane all’estero

Dal 1876 al 1980 più di 26 milioni di italiani emigrarono all’estero. L’apice del fenomeno fu però raggiunto all’inizio del XX secolo, quando più di mezzo milione di persone ogni anno lasciarono il paese, e nel 1913 con 872.000 emigranti.

Gli Stati Uniti e l’Argentina, le mete americane preferite, seguivano un modello economico simile per quello che riguardava la permanenza e l’assorbimento degli immigrati, ovvero cercavano di trattenerli come forza lavoro e di integrarli all’interno del sistema-paese.

Il Brasile, al contrario, optava per permanenze stagionali di breve durata attraverso politiche pubbliche di attrazione di manodopera specializzata.

E questo si può notare anche vedendo la provenienza degli emigranti. L’emigrazione più diffusa e duratura veniva dal Sud Italia – Campania (2,7 milioni), Sicilia (2,5 milioni), Calabria (2 milioni) – che appunto dirige verso gli Stati Uniti; mentre dalle regioni del Nord (Lombardia e Piemonte, 2,3 milioni ciascuna) partivano per la maggior parte migranti stagionali, o comunque più abbienti, che potevano permettersi le mete del Sud America.

L’eccezione a questo scenario è il Veneto, che fornisce un quinto dell’emigrazione totale del secolo (3 milioni di emigranti e 2,2 milioni del Friuli-Venezia Giulia che prima del 1918 era parte del Veneto) diretta prevalentemente verso il Brasile, dato l’alto tasso di povertà della regione.

Ogni regione italiana mostra quindi le sue “predilezioni”: il Veneto per il Brasile; le Marche per l’Argentina; la Liguria per l’Uruguay; Campania, Sicilia, Calabria, Basilicata massicciamente per gli Stati Uniti.

Come abbiamo visto, ci sono vari fattori influenzano queste scelte: localizzazione geografica, costo del viaggio, le trasformazioni dei paesi stranieri e le loro politiche immigratorie, il mestiere e le professionalità degli emigranti, le diverse strategie di integrazione, l’affermarsi delle prime comunità italiane. Ed anche queste hanno caratteri molto diversi, in base al tipo di emigranti.

Ad esempio, i piemontesi hanno mostrato una tendenza più elevata a tornare in Italia investendo i loro risparmi nell’economia locale, mentre il ritorno produttivo dei meridionali è meno importante dal punto di vista dei numeri.

L’atteggiamento dei settentrionali era basato su una lunga tradizione di spostamenti temporanei diretti a risparmiare rapidamente e rientrare nel proprio paese per investire, per questo si concentrarono in territori economicamente e geograficamente omogenei, creando legami culturali e professionali molto forti.

Nel caso di siciliani e i calabresi, questi mostrarono di avere invece acquisito un’esperienza di emigrazione molto diversa: transoceanica, che mirava ad avere un rapido successo all’estero e ad integrarsi quanto prima nella società locale con l’intero gruppo familiare.

Emigrazione italiana: storia di successo?

Quella dell’emigrazione italiana può essere considerata una “storia di successo”? Che fine fanno gli emigranti una volta arrivati sul posto? Dipende. Prendiamo il caso di due delle città con le più numerose ed attive comunità italiane, New York e Buenos Aires.

Come abbiamo visto, le tipologie di emigranti che raggiungevano queste città erano molto diverse. E infatti mentre a New York gli italiani, sebbene presenti in gran numero in alcuni settori occupazionali, non hanno mai controllato larghi settori dell’economia, a Buenos Aires i lavoratori e i proprietari italiani dominavano molti settori commerciali e industriali.

A Buenos Aires la maggioranza della comunità italiana era costituita da lavoratori specializzati e proprietari di piccole industrie e imprese commerciali, a New York principalmente da operai e bassa manovalanza poco qualificata. La mobilità occupazionale tra gli italiani a New York era confinata al settore operaio, mentre a Buenos Aires si estendeva a quello impiegatizio.

Anche i modi in cui le comunità si formavano erano influenzati dalla diversità del contesto lavorativo e sociale. Gli italiani a Buenos Aires erano sparsi in tutta la città, mentre quelli di New York erano più concentrati nei quartieri più poveri e affollati. Anche la proprietà di case o altri beni immobili era molto più alta tra gli italiani di Buenos Aires che tra quelli di New York.

Per quello che riguarda le organizzazioni degli immigrati, a Buenos Aires esse erano molto più sviluppate, controllavano maggiori risorse ed erano rappresentative dei diversi settori della comunità.

In concreto, l’esperienza degli italiani negli Stati Uniti fu più sofferta e traumatica di quella nell’America del Sud, anche se l’enorme crescita economica degli Stati Uniti e altri fattori internazionali hanno premiato lo status raggiunto dagli italoamericani.

Possiamo quindi dire che più l’integrazione dei “pionieri” ha avuto successo, più il senso di identità, persino dopo la quinta generazione, è stato forte.
La recente richiesta di italianità, e in generale di cittadinanza italiana, in Argentina e il desiderio di tornare in Italia possono essere spiegati col buon ricordo del primo momento di positivo adattamento, con scarsi livelli di discriminazione e di marginalità.

Il maggior impatto della presenza italiana nella storia americana si può infatti osservare nei Paesi più piccoli, come l’Uruguay, o in contesti rurali, come nel brasiliano Rio Grande do Sul, in cui l’isolamento delle colonie agricole fece sorgere una più forte coesione interna e una forte leadership etnica. Per di più l’elemento italiano era già presente al momento della costituzione di questi nuovi paesi e ben presto entrò a far parte del carattere nazionale.

L’emigrazione dopo il 1945

Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, la nuova Repubblica riprende una legislazione favorevole verso la tutela dell’emigrazione dei nostri connazionali. Durante il periodo della ricostruzione del Paese dopo il disastro materiale e morale della guerra, l’emigrazione risultò funzionale alla ripresa dell’economia. Le rimesse che gli emigrati inviavano alle loro famiglie rimaste nel Paese, infatti, sostennero in modo significativo il successivo miracolo economico italiano. Ma c’è un’importante differenza.

L’emigrazione italiana post-1946 fu finanziata e rafforzata dalle catene migratorie delle vecchie comunità stabilite nelle Americhe. Grazie a queste, il movimento migratorio fu anche in grado di raggiungere nuove destinazioni, come il Venezuela, il Canada e l’Australia, costituendo in questi Paesi comunità che ancora oggi sono molto attive.

Ma la “corsa alle Americhe” era ormai finita. I contesti nazionali e internazionali erano completamente mutati.

L’Italia repubblicana stava infatti elaborando una prospettiva politica internazionale in cui includere l’emigrazione di lavoratori in accordi bilaterali o multilaterali, allo scopo di inserire questa forza lavoro all’interno degli accordi politici che prevedevano la costituzione di una Comunità Economica Europea integrata.

I nuovi flussi migratori si orientarono quindi principalmente verso le destinazioni europee, anche a causa delle trasformazioni sociali avvenute in Italia in quegli anni.

La rapida adozione di abitudini consumistiche, tipiche delle società avanzate, prevalgono e influenzano i movimenti di popolazione, all’interno e all’esterno del Paese. Le trasformazioni sociali e di classe sono evidenti. Il vecchio mondo contadino, che aveva costituito la base del movimento migratorio verso le Americhe, era ormai scomparso.

E questo è tutto per oggi. Naturalmente il fenomeno migratorio è una storia complicatissima e piena di vicende familiari tra le più disparate, noi abbiamo solo cercato di fornire un quadro storico complessivo.

E qui mi rivolgo a tutti voi, amici italiani all’estero o figli e nipoti di emigranti, che ci seguite e commentate. La vostra storia e della vostra famiglia rispecchia quanto raccontato in questo eBook o si differenzia?

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